Asociación para el estudio de temas grupales, psicosociales e institucionales

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Formacione e supervisione nelle istutuzioni, Raffaele Fischetti


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Formazione e supervisione nelle istituzioni [1]

Raffaele Fischetti

Prologo

Nel primo congresso latinoamericano di psicoterapia di gruppo tenuto a Buenos Aires nel settembre del 1957 Pichon-Rivière viene invitato a portare un suo contributo sul tema. In quegli anni in Argentina Pichon-Rivière é lo psicoanalista che per primo ha introdotto l'utilizzo del gruppo e della psicoterapia di gruppo ed il suo intervento é molto atteso. Ma come era suo solito il suo intervento spiazza il pubblico perché introduce un tema originale: si interroga sui problemi inerenti l'insegnamento della psichiatria e della psicoanalisi e indirettamente sui fondamenti della stessa psichiatria e psicoanalisi.

Pichon-Rivière osserva un fenomeno collegandolo alla descrizione di un altro fenomeno che lo illumina e lo pone sotto un'altra luce.

Propone la sua tecnica di apprendimento gruppale della psichiatria, ma introduce anche una serie di considerazioni generali sugli ostacoli all'apprendimento. Chiarisce:

“... la conoscenza della psichiatria, cioè quello che noi chiamiamo lo schema di riferimento della psichiatria, si trova già nella mente dello studente. E' ciò che ha dentro di sé quando funzionano tutti i meccanismi della malattia con variazioni quantitative tra se stesso e il malato più grave dell'ospedale psichiatrico.

Il problema si pone così: per poter conoscere il paziente, entrare dentro di lui, colui che apprende deve assumere il ruolo del paziente. Il ruolo del paziente è un ruolo che risulta angustiante, perché è un ruolo del malato mentale. Detto in altre parole un avvicinamento autentico al malato significa per lo studente un pericolo, un'ansia particolare, il cui contenuto analizzeremo.” (1985, p. 117)

Sottolinea che le prime ansie apparse sono simili a quelle che si presentano nell'analisi individuale di candidati analisti. Appaiono ansie claustrofobiche rispetto alla situazione di apprendimento e resistenze ad apprendere:

“... nel campo della conoscenza l'oggetto si situa... quasi come un nemico del soggetto. Questo ostacolo teme di essere penetrato deve essere conosciuto... in questo caso l'ostacolo epistemofilico é l'altro, il paziente”. (1985, p.118)

L'apprendimento della psichiatria ha come condizione l'identificazione con l'oggetto e pertanto l'assunzione del ruolo del paziente genera un'ansia particolare in quanto insieme al ruolo di paziente si assume il ruolo della pazzia. L'insegnamento gruppale è il più adeguato per esplorare ed elaborare questo processo. Il dispositivo gruppale mira a una possibilità di elaborare gli ostacoli emotivi che presuppone l'apprendimento della psichiatria e della psicoanalisi.

“La fantasia di base che ostacola l'apprendimento é una fantasia che fu segnalata da M. Klein; é la paura, l'ansia di distruggere l'oggetto di conoscenza, che in questo caso, per esempio, può essere rappresentato dal seno o dal corpo della madre. Ma un'altra ansia si aggiunge a questa, ed é la paura di restare dentro l'oggetto una volta che si é penetrato dentro di esso e lo si é svuotato”. (1985, p. 121-122)

Il dispositivo gruppale offre anche la possibilità della compartecipazione dell'oggetto di conoscenza, cioè, dell'oggetto mentale. E' come se nel gruppo si frammentasse l'ansia che provoca la ricerca di questo oggetto. Pichon-Rivière sta parlando del problema dell'apprendimento della psichiatria ma nello stesso tempo sta aprendo dei solchi nelle idee correnti di terapia della malattia mentale. Processo terapeutico e processo di apprendimento sono irrimediabilmente vincolati. Ed questo é il tema o l'ipotesi di questo lavoro.

Vicissitudini della relazione tra domanda e offerta: l'apertura

Questo tema mi permette di ripensare a una serie di attività e ricerche da me portate avanti negli ultimi 30 anni con servizi pubblici.

Il lavoro di formazione e/o supervisione nei servizi pubblici, dopo i primi contatti con alcuni rappresentanti dell''istituzione, necessita di un primo colloquio gruppale con l'equipe di lavoro, come forma di apertura e di contratto tra tutti.

Nel primo colloquio l'equipe esplicita la propria richiesta di aiuto. Pichon-Rivière lo chiamava uno studio in miniatura, uno spaccato di ciò che sta accadendo ai membri dell'equipe nella loro situazione lavorativa. Cerchiamo di individuare non solo la domanda implicita nella richiesta di formazione o supervisione, ma anche chi sono coloro che la pongono. Questo momento iniziale di lavoro serve per evitare i malintesi del lavoro successivo di formazione o supervisione.

Al supervisore serve avere un'idea della dinamica dell'equipe, come sono le relazioni tra gli operatori, quali sono i conflitti in gioco, come si rapportano con le leadership istituzionali, se si possono intravedere codici e malintesi. Interessa anche come, per esempio, viene intesa la funzione di supervisione, quali sono i vissuti, i significati e l'immaginario.

La Situazione

Assistiamo in questi anni a una serie di cambiamenti dovuti sia all’accresciuta preparazione degli operatori, sia a fattori esterni, come l’emergere di nuove categorie del disagio e della sofferenza nella popolazione, di nuove richieste di servizi, sia a una diversa modalità di presentazione del bisogno sociale da parte dell’utenza, sia ai grandi cambiamenti nella costituzione sociale dei servizi che diventano sempre più “aziende” e di conseguenza devono tener conto di parametri quali la produttività, l’efficacia e la separazione della competenze proprie da quelle improprie, evitando però che questi cambiamenti abbiano come esito automatico l’impoverimento della preoccupazione verso l’utenza.

Ritengo che queste novità possano avere il senso di positive sollecitazioni al cambiamento dei servizi, spingendo a una più netta identità dei servizi stessi che spesso hanno confuso in questi anni l’efficienza\efficacia con l’incremento della quantità dell’utenza o con l’offerta di sempre maggiori opportunità troppo concrete non sufficientemente simbolizzate, o di moda, inseguendo un progetto fin troppo parziale di farsi carico della domanda non per quello che la domanda é, ma per tutto quello che ci gira attorno. Bauleo dice che se, per esempio, l'utenza fa richiesta di assistenza il servizio psichiatrico si può trasformare in un ospizio.

Vorrei semplicemente proporre alcune riflessioni sui limiti del lavoro istituzionale cercando di leggere tali limiti come elementi appartenenti all'inquadramento (spazio, tempo, funzioni e compito), capaci cioé di organizzare il campo di intervento, di attivare contenimento e di sollecitare gli aspetti vitali dei pazienti. Voglio cioè interrogarmi sugli aspetti dinamici e positivi del limite, mettendo tra parentesi l’ovvia considerazione di elemento frustrante e persecutorio. I servizi prima di erogare un aiuto devono essere in grado di decodificare e in qualche modo rispettare l’originalità della domanda. L'inquadramento servirà allo scopo di rendere interno l'esterno e di osservare l'interno dall'esterno.

Voglio dire che non siamo lì per fornire facilitazioni sociali concrete, ma per modificare una certa situazione a partire dai nostri e dai loro limiti. La relazione con i pazienti viene a calarsi in una cornice non più duale, ma in un campo di relazioni. Guardare al campo vuol dire sapere dove si è, che cosa si può fare realmente con una richiesta, riconoscere i propri limiti, confidare negli aspetti vitali dell’utenza, anche se spesso essa ci sollecita e ci seduce a prenderci cura in toto di loro, stimolando la nostra onnipotenza. Una delle conseguenze di quest’ultimo atteggiamento è quello di arrivare ben presto alla saturazione dei servizi con tutte le conseguenze, anche di natura economica, che si possono immaginare.

Occorrono spazi per pensare a come si sta lavorando, ai meccanismi di induzione e manipolazione che facilmente si creano nel rapporto con l’utenza, alle ansie e alle fantasie che spesso stravolgono i propri obiettivi istituzionali. Si possono trarre grandi vantaggi se gli operatori si collocano in sintonia con la situazione culturale e sociale in cui si opera, e se il proprio lavoro, l’accoglimento della domanda, s’inquadra all’interno di una serie di condizioni che devono essere mantenute ferme (il setting).

La psicologia degli ambiti

La Psicologia degli ambiti (individuale, gruppale, istituzionale e comunitario) sorge come un tentativo di sistematizzare l’osservazione del campo di lavoro e come possibilità di rappresentare le diverse forme d’influenza tra gli ambiti stessi. Aver chiaro dove un fenomeno si presenta e le sue eventuali estensioni, permette una più approfondita comprensione di certi fenomeni. Ogni manifestazione di un soggetto, di un gruppo, di un’istituzione o di una comunità trascina elementi degli altri ambiti. Il vantaggio maggiore dell’utilizzo della Psicologia degli Ambiti è quello di uscire dallo stereotipo di pensare i fenomeni all’interno dell’ambito individuale, e di inquadrarli fondamentalmente a partire da contesti più ampi, cioé dall’ambito comunitario verso contesti più delimitati.

Tutte queste precisazione come ricadono nel gioco tra domanda e offerta nella formazione e/o supervisione?

L'intergioco tra domanda e offerta

Domanda e offerta non sono due elementi esterni una all’altra, ma configurano un vincolo. Il vincolo è una struttura complessa che include almeno due soggetti, la loro reciproca interrelazione, sia a livello di oggetti esterni sia a livello di oggetti interni, le loro funzioni e le loro fantasie. Questa configurazione crea uno spazio emotivo e mentale che ha una sua specifica rappresentazione inconscia. Sottolinea la reciprocità e la sincronizzazione tra le persone, è frutto cioè di un investimento incrociato tra due. Un soggetto vede l’altro, lo tratta, entra in rapporto come se fosse un oggetto interno, e si aspetta che l’altro risponda alle proprie aspettative come farebbe l’oggetto interno. Se l’altro non risponde, può cercare di indurre i comportamenti in modo tale che finisca per rassomigliare al proprio oggetto interno. Ma l’altro anche vede, entra in relazione e sollecita il primo e, se si sente insoddisfatto rispetto alle proprie aspettative, cerca di indurle. Nella nozione di vincolo è inclusa “un’influenza”, funzionale alla relazione stessa. Per questo si dice che nel vincolo tra domanda e offerta è inclusa un’influenza reciproca e che nella domanda è implicita l’offerta. Si riconosce la rilevanza delle relazioni sociali nella formazione della domanda. È l’organizzazione istituzionale della proposta, dell’offerta che determina la forma della domanda. Il servizio attraverso le modalità di interazione con i pazienti, entra nella costituzione del processo di formazione della domanda.

I pazienti con le loro richieste non provocano aggiustamenti nell’organizzazione rispetto a un obiettivo dato, non sono esterni o a priori rispetto alle istituzioni, ma sono portatori dei codici normativi e dei fini della stessa, sono la memoria degli obiettivi stessi e pertanto elementi che nell’interazione restituiscono all’organizzazione i fini della stessa, riaffermandoli come parti intrinseche.

Nei momenti in cui serve una trasformazione, è necessario rompere la razionalità formale, cioè un’organizzazione precostituita, stereotipata, naturalizzata per il raggiungimento di certi obiettivi (di risposte cioè a certi bisogni), e cercare delle modalità creative per ricontestualizzare i fini e i mezzi dell’istituzione che fa un’offerta.

Il campo della multi-disciplinarietà e quello dei differenti dispositivi di cura si intersecano nello spazio dell'analisi della domanda e producono un doppio livello di frammentazione, dice Armando Bauleo. Le varie figure professionali e i dispositivi specialistici (ambulatorio, ricovero, ospedale di giorno, comunità terapeutiche, ecc. ) che sono presenti nell'equipe producono una doppia frammentazione della domanda di assistenza in quanto prendono in considerazione aspetti parziali della stessa. Quando ci chiediamo chi si fa carico della richiesta di intervento ci troviamo di fronte a un campo ben più complesso. La fantasia soggiacente ad ognuno di questi ascolti selettivi, parziali é quella di essersi fatta carico della totalità della problematica.

Molti malintesi, confusioni o conflittualità che si manifestano nell'equipe sono correlati a questa situazione. Uscire da questo impasse di aggregazione o sommazione di diagnosi e tecniche terapeutiche e riuscire invece a cambiare ottica sarebbe utile alle equipe. Si tratta di collocarsi rispetto al paziente come a un incrocio di osservazioni e di adottar uno schema di riferimento che opererà una sintesi di quanto osservato.

Non si tratta di stabilire una gerarchia tra figure professionali o dispositivi di cura, ma di trasformare gli schemi di riferimento durante il processo del lavoro terapeutico.

A partire da questo punto potranno essere integrati i diversi aspetti disciplinari o specialistici che arricchiscono la comprensione della richiesta di cura. E' necessario che l'equipe abbia la possibilità di istituire spazi di decentramento (riunioni di equipe) per poter riflettere sui propri obiettivi e ripensare alle proprie implicazioni.

Nei momenti di supervisione e formazione dell'equipe saranno necessariamente inclusi questi elementi di transfert istituzionale e controtransferali dell'equipe con i pazienti. La supervisione ha il compito di riflettere il processo clinico. Si possono osservare in essa i differenti percorsi che il processo clinico sta attraversando, cioè l'attualizzazione nel qui-e-ora-con-il-supervisore di alcuni momenti problematici del processo terapeutico.

Ma Bleger ci ha insegnato che un’istituzione è il luogo dove noi depositiamo le nostre ansie rispetto a certi aspetti cruciali della nostra vita. E quando dico “noi” sto indicando sia gli operatori dell’istituzione, sia gli utenti dell’istituzione stessa. Se un’istituzione funziona, permette l’arricchimento delle personalità degli operatori e degli utenti. Se non funziona produce sintomi di sofferenza in entrambi. Se un’istituzione cambia la propria organizzazione produce in qualche modo “sbalzi” nella personalità, sbalzi che in qualche modo andrebbero monitorati e contenuti. Si risvegliano nel gruppo sociale le ansie di fronte alle modifiche delle difese collettive strutturate in funzione di un problema (malattie, pazzia, povertà, handicap, delinquenza, extracomunitari, per esempio). Risulta così più comprensibile perché tante volte facciamo di tutto per non cambiare le istituzioni.

Ma non sono solo le istituzioni a esercitare la funzione di difesa e controllo dalle ansie, anche le immagini che abbiamo di noi stessi e dell’istituzione, quella che si chiama l’istituzione interna, svolgono questo compito.

Ogni istituzione organizza una rappresentazione che si colloca al di là dei personaggi reali e degli elementi obiettivi. Contribuiscono alla strutturazione dell’immaginario le proiezioni degli operatori, ma anche le rappresentazioni sociali di ciò che quest’istituzione dovrebbe essere, la storia e i personaggi di certe pratiche educative, assistenziali, terapeutiche, riabilitative.

Ogni servizio dovrebbe interrogarsi su qual è l’immaginario sociale che la comunità ha del servizio stesso.

Rappresentazioni sociali

Per adattarci all’ambiente che ci circonda, per agire in esso, controllarlo, individuare e risolvere i problemi che pone, costruiamo rappresentazioni sociali. La rappresentazione è elaborata da un gruppo sociale che si confronta con un problema saliente e assume le caratteristiche di una conoscenza condivisa sotto forma di una “teoria del senso comune”. La rappresentazione sociale permette ai membri di una comunità di comportarsi e comunicare tra loro in modo comprensibile.

Moscovici afferma che si tratta di sistemi cognitivi con una logica e un linguaggio propri quindi non semplicemente di “opinioni su…” o “atteggiamenti nei confronti di…” ma di teorie o pezzi di conoscenza vere e proprie che servono per la scoperta e l’organizzazione della realtà. La loro funzione è pertanto duplice:

  • permettere di stabilire un ordine che consenta agli individui di orientarsi nel mondo sociale e materiale e di dominarlo;
  • rendere possibile la comunicazione fornendo un codice per lo scambio e uno per denominare e classificare in modo non ambiguo i vari aspetti del mondo, della storia individuale e del gruppo.

Da un lato, l’interazione crea rappresentazioni e, dall’altro, le rappresentazioni influenzano lo svolgimento dei vincoli. Si pensi, ad esempio, alle rappresentazioni che nascono ancor prima di entrare in relazione con altri gruppi (rappresentazioni anticipatrici): esse influenzano il comportamento e l’immagine dell’altro gruppo e servono a giustificare gli atteggiamenti di discriminazione di un gruppo nei riguardi di un altro. In questo caso viene a crearsi una corrispondenza tra realtà e rappresentazione. La condivisione delle rappresentazioni sociali rafforza il legame sociale e l’identità.

Rappresentare e rappresentarsi corrisponde a un atto di pensiero attraverso il quale un soggetto si rapporta con un oggetto. La rappresentazione mentale mette in evidenza un oggetto, ne tiene conto, lo sostituisce, lo rende presente quando è assente. Si preferisce parlare di ricostruzione della realtà, giacché il punto di partenza non è il fenomeno bruto, ma un fenomeno percepito come rilevante. Il comportamento non è quindi una risposta a uno stimolo o a un oggetto esterno, ma alla ricostruzione di tali stimoli e oggetti. Fondamentalmente la funzione di tutte le rappresentazioni sociali è quella di render familiare quanto è estraneo, distante dall’esperienza dei membri del gruppo coinvolto nel rapporto con la realtà.

Riassumendo, da un lato le rappresentazioni sociali consentono la riduzione delle paure nei confronti dei fenomeni non familiari e l’organizzazione di atteggiamenti e sentimenti nei loro confronti, dall’altro, attraverso la loro condivisione nel gruppo, assicurano identificazioni che rafforzano i legami sociali.

Le rappresentazioni sono considerate come una protezione contro l’angoscia, sono un modo di ri-presentare un’assenza, spiegare una causa e produrne verbalizzazione, un modo per rappresentare i desideri e le paure e assicurarsi il loro controllo e, non da ultimo, consentono di spostare la fonte di piacere-dispiacere dall’oggetto rappresentato alla sua rappresentazione.

Analisi della domanda

Ciò che il paziente sa è che esistono dei “problemi” che egli si considera incapace di risolvere da solo; sa pure che esistono professionisti che erogano servizi, formazione animazione, interventi. La domanda formulata prende dunque lo spunto da un linguaggio conosciuto, precostituito, tradizionale, “necessità di formazione, informazione, servizi ecc.”. La domanda implicita è situata altrove e si tratta di elucidarla, analizzarla, decostruirla, interpretarla. La domanda formulata è un pre-testo per la domanda implicita. Un ascolto attento di questo pre-testo conduce a intendere il testo della domanda. Ma sappiamo anche che il richiedente non è quasi mai pronto a sostenere il testo nella sua integrità.

Voglio dire che la richiesta che un paziente, o un’istituzione, può fare rispetto alla propria necessità o a un proprio problema non è mai chiara, risente inevitabilmente della loro rappresentazione della situazione, nasconde quasi sempre una conflittualità interna o interna a un gruppo, è frutto di un lavoro di condensazione o spostamento, presenta diversi livelli implicati in esso. E’ per questo che la domanda iniziale ha bisogno di un lavoro di decostruzione, quella che si chiama “l’analisi della domanda”.

Nella richiesta avanzata occorre svolgere e sviluppare la domanda implicita. Ma svolgere il latente di una domanda non è un opera magica di disoccultamento, ma un’analisi sistematica della diverse questioni e dei diversi circuiti che girano intorno ai problemi che si vanno presentando nei colloqui iniziali. Che questo lavoro non si faccia quasi mai è certamente un problema perché occulta i livelli di collusione e di evitamento di chi fa l’offerta.

Un approfondimento importante. Che cosa succede quando chi fa richiesta di aiuto o di un intervento lo fa non per sé, ma per qualcun altro? Si tratta, in genere, di dirigenti, rappresentanti, genitori che fanno richieste per altri. Una strategia importante in questo caso è quella di considerare chi ci consulta non soltanto come il cliente “gestore”, ma anche come il soggetto su cui intervenire, in modo che chiarisca le proprie motivazioni, i propri obiettivi, le contraddizioni e i conflitti, così come la maniera di agire e le conseguenze che ne derivano.

Ogni operatore ha due funzioni una come figura clinica e una come membro dell'equipe.

Una seduta clinica di supervisione sul materiale di un caso individuale o di gruppo si trasforma in un gioco di luci di diverso colore su una figura di sfondo. Ciascuno porta un contributo per risolvere il rompicapo. Ma parallelamente all'assestarsi dei vincoli e dei transfert del e nell'equipe si realizza l'articolazione dei contributi, per comporre il quadro clinico e le sue vicissitudini.

E' necessario includere l'immaginario intorno al quale i pazienti costruiscono le loro fantasie di trattamento e di guarigione e le loro aspettative su ciò che le istituzioni dovrebbero dare e anche le loro fantasie sull'assistenza, in collegamento con le funzioni che l'equipe dovrebbe svolgere, sia a livello degli operatori sia sul piano amministrativo. Voglio dire che nella richiesta dei pazienti saranno implicite le rappresentazioni che essi hanno dell'assistenza pubblica.

Un elemento importante è la domanda che l'equipe fa al supervisore di mediare le difficoltà di comunicazione con la direzione del Servizio. Questa situazione che si proietta fuori da gruppo é lo spostamento di distorsioni nella comunicazione tra i membri dell'equipe, dovute alla dissociazione da loro operata tra pensiero e azione tra la creazione di piani ideali e la loro realizzazione.

Urgenza come resistenza al compito gruppale

L'equipe necessita di un tempo di assestamento nelle relazione degli operatori tra loro e nello stabilirsi del vincolo con il supervisore per “lavorare” un caso clinico in equipe.

In tale tempo si vanno discriminando aspetti e problematiche propri dell'equipe e si fanno definendo a loro volta quelli dei pazienti. La supervisione con l'equipe istituzionale deve tener conto di una dimensione nuova e specifica del gruppo stesso. In ogni equipe ci sono solo abbozzi o germi di struttura gruppale perché riteniamo che le equipe all'inizio non siano gruppo, si presentano come un raggruppamento di professionisti e non come un gruppo dove la collocazione e la struttura gruppale producono la transdisciplinarietà. Occorrono un tempo e uno spazio perché ciò avvenga.

Inserire la tematica della sofferenza all’interno della prospettiva gruppale significa dilatare in qualche modo il campo di osservazione del fenomeno. Questo ci permette anche di disegnare una psicopatologia che pone come punto di partenza il gruppo familiare. Nella famiglia il più della volte si diventa pazienti individuali, in alcuni casi come effetto di una malattia. Il sintomo, il malato diventano la malattia. La malattia che si lega e si slega in una serie di vincoli familiari. Bion ha segnalato che Freud per primo ha sottratto il disagio psichico all’individuo e l’ha inserito all’interno di una relazione. Pichon-Rivière alla fine degli anni quaranta scopre che un lutto non elaborato in una famiglia passa alla generazione successiva. Certi pazienti apparivano il risultato di una struttura familiare malata e si evidenziava la follia dei genitori e/o di altri familiari.

I dispositivi gruppali hanno origine da certi limiti dell’intervento individuale, dalle difficoltà che presentavano il trattamento di certi pazienti soprattutto in ambito istituzionale. I contesti gruppali hanno reso possibile un nuovo approccio alla patologia. Da questo nuovo vertice o ambito, come lo chiama Pichon-Rivière, la patologia si rende più complessa, acquista caratteristiche nuove che offrono possibilità differenti di lettura e intervento. Da una parte ci troviamo di fronte a parti malate affianco a parti sane importanti, dall’altro appare evidente che il sintomo o la sofferenza psichica è un vincolo.

Storicamente i cosiddetti casi difficili (senza motivazione, si dice) hanno ripetutamente evidenziato che le difficoltà non sono solo attribuibili al paziente, ma al campo paziente-famiglia-equipe curante e che un riesame dell’intervento possa permettere un cambiamento di prospettiva per individuare l’ambito di intervento dove le resistenze sono meno tenaci (punto di minore resistenza).

Il legame dell’equipe con i pazienti configura una serie di problematiche. L’impatto delle richieste del paziente determina una serie profonda di reazioni e modifiche nell’assetto globale dell’equipe a contatto con questi fenomeni.

L’equipe subisce una serie di cambiamenti e soprattutto assume un insieme di configurazioni possibili il cui riconoscimento è importante per evitare che il singolo operatore resti all’oscuro delle motivazioni collettive che li hanno determinati.

La diagnosi di situazione

Lavorare con la famiglia significa riconoscere i vincoli che sono in gioco. Il paziente può essere solo la punta di un iceberg, cioè il prodotto di quei vincoli. Quando il paziente viene accompagnato, coloro che lo accompagnano, i parenti, non vengono per caso. Perché anche loro aspettano una risposta ai problemi che portano con il figlio. Quello che chiamiamo diagnosi di situazione si presenta come un attacco vero e proprio all'idea che considera la malattia come un fattore individuale.

Dietro la concezione che malato sia uguale a malattia, c'é il pensiero che l’individuo si ammali al di fuori di un contesto, situazione e vincolo. Ma un individuo non si ammala mai al di fuori dei propri vincoli, dal momento che tutti costantemente siamo immersi in una rete di vincoli.

Possiamo anche immaginare una persona sola, ma si chiedeva Armando Bauleo: “chi è una persona sola?” Potrebbe essere quella che parla all'interno di un delirio e un osservatore da fuori potrebbe dire che sta parlando da solo. Ma sappiamo che non sta parlando da solo, parla con qualcuno che è dentro di lui.

Quando facciamo la diagnosi di una situazione tentiamo di ripercorrere le tappe che hanno prodotto il fenomeno della sofferenza mentale. Pensiamo ad una mappa di legami, di conflitti, di lutti non elaborati, di crisi che si sono prodotte in quegli stessi vincoli. Da questa situazione dobbiamo pensare come si sviluppa un processo terapeutico, o un processo di promozione della salute, o come assistere una famiglia in base alle loro necessità.

La diagnosi di situazione opera una rottura con l’ideologia individualistica che crede che un paziente si possa ammalare in modo isolato. Si rompe con un pensiero riduzionista che si basa sulla logica causa-effetto. Sempre vi è una multi-causalità che provoca un effetto. Non vi è solo un fattore che produce un determinato effetto.

Quando noi parliamo di diagnosi di situazione parliamo quindi di una concezione: “la concezione vincolare”. Pensiamo che il vincolo sia l’elemento centrale, di base per il soggetto. E sono proprio questi stessi vincoli quelli che permettono al soggetto di inserirsi nella società e avviare un processo di soggettivazione. La diagnosi di situazione è contro la credenza che si possa trattare un paziente soltanto attraverso una visione unilaterale e unicausale.

C'é un’interdipendenza dei fattori che entrano in campo. Per questo è fondamentale cercare gli strumenti adatti ad affrontare questa interdipendenza di fattori, senza mettersi in una situazione di complicità. Intendo dire senza essere complici dei pazienti. La questione che si impone a questo punto é come possiamo mantenere una certa distanza ottimale nel trattamento di queste famiglie.

Stiamo parlando di quel vincolo equipe-famiglia del paziente dove sembra essere escluso il pensiero, dove si ripetono interventi indiscriminati, dove la finalità del cambiamento non esiste. Si tratta di uno scambio “muto” di aspettative implicite depositate nella routine dell'Istituzione.

Nei pazienti dove prevalgono fantasie fusionali e comportamenti simbiotici, ogni iniziativa, ogni trasformazione tenderà a creare immediatamente reazioni terapeutiche negative e/o forti resistenze al processo terapeutico non solo da parte del paziente, ma di tutto il contesto familiare (intromissioni, richieste continue, squalifiche degli operatori, collusioni con il paziente ecc.).

Quando i vincoli del paziente sono così indiscriminati rispetto alla famiglia, nel senso che i familiari sono gli oggetti che egli rende depositari di una gran quantità di vincoli di cui non può farsi carico, non è possibile una delimitazione del setting terapeutico. La presa in carico allora, da parte di più operatori o di tutta l’equipe, è la condizione di possibilità per diminuire gli effetti di indiscriminazione del gruppo famiglia (punto di massima resistenza).

E’ difficile, in questi casi, pensare una qualsiasi trasformazione del paziente senza un contemporaneo intervento sulla famiglia. Queste famiglie si presentano come un gruppo simbiotico dove ognuno dei componenti è depositario e agisce ruoli corrispondenti a vincoli con oggetti interni degli altri. In queste situazioni difficili, per svolgere adeguatamente il compito di terapia combinata o integrata, l’equipe necessita al suo interno di una buona capacità di coordinamento da parte del responsabile, di capacità di riflessione e pensiero (mentalizzazione) e di sufficiente fiducia reciproca di base da parte di tutti gli operatori.

L’impossibilità che il paziente vive ad individuarsi rispetto al proprio contesto, l’effetto paralizzante della famiglia indiscriminata, determinano in lui una sorta di frammentazione interna, scissioni di parti non integrabili che vengono depositate sui vari membri dell’equipe per essere in qualche modo contenute. E’ importante sottolineare che, di fronte a queste situazioni, l’equipe non risponde solo con i ruoli e le funzioni specifiche e articolate che sono necessarie, ma risponde anche come totalità con modificazioni di clima e atmosfere significative.

In questa situazione di scissione e frammentazione dell’equipe il primo obiettivo è quello di ricostituire il pensiero sul paziente, l’autoriflessione all’interno del gruppo di lavoro per operare l’integrazione preliminare delle diverse parti che il paziente e la sua famiglia non sono in grado di integrare. Il passo successivo sarà quello di aiutare il gruppo familiare a discriminare ruoli, funzioni e compiti che fino a quel momento erano rimasti confusi.

La diagnosi di situazione ha come obiettivo di pensare alla dinamica della struttura che caratterizza questi vincoli e quale tipo di organizzazione ha prodotto questa struttura. Dobbiamo pensare che il paziente che si presenta al servizio è soltanto l'emergente di tutta la problematica, il sintomo di un problema piú generale.

Questa è l’idea centrale, ed è su questa concezione che deve funzionare una diagnosi di situazione. Quindi la diagnosi di situazione è quella “mappa” che dobbiamo costruire per entrare a lavorare con un soggetto, un gruppo familiare, un’istituzione o una comunità. Questo è il punto di partenza per mettere a fuoco e definire una diagnosi di situazione.

Per arrivare ad una diagnosi di situazione, cioè ad una diagnosi non solo del soggetto, ma dei vincoli in cui è inserito, si parte dalla possibilità di far emergere le estensioni latenti che una situazione conflittuale individuale può avere. La diagnosi sarà subordinata non solo alle caratteristiche del paziente e alle possibilità del terapeuta ma anche alle risorse su cui può contare l'istituzione e alle risorse della famiglia del paziente (presenza di depositari affidabili).

I membri di una famiglia nell’indicare e definire il motivo della consultazione possono, da un lato, cadere in uno stereotipo e, dall’altro, voler legare le mani al terapeuta. Nascondendosi dietro la certezza dell’evidenza, tentano di spingere l’analista a trattare una sola problematica, ritenuta la causa del conflitto. Spetta allora al terapeuta chiarire l’aspetto implicito (latente) sottostante al conflitto manifesto ed estendere l’area del conflitto in tutta la sua ampiezza. Partiamo dall'ipotesi che nessun elemento o azione tesi al trattamento della malattia mentale possa restare separato, alienato o dissociato dalla situazione gruppale. Stiamo parlando, per esempio, del fenomeno così frequente dell'utilizzo separato degli psicofarmaci o del metadone, separazione che non ha nessuna ragione d'essere in quanto i farmaci hanno un ruolo centrale e imprescindibile nelle situazioni di vita (la drammatica direbbe Bleger) dei pazienti, dei loro familiari e anche in quella dei terapeuti.

Di fronte a conflitti o emergenti individuali, si vanno ad individuare i vincoli nella storia familiare che continuano ad agire e che portano alla costruzione di tali emergenti. Noi ci occupiamo della rete familiare, vale a dire dei vincoli tra gli individui per capire quel qualcosa che sta succedendo e che ingloba tutti. Gli individui che partecipano alla rete familiare sono sovradeterminati dalla stessa organizzazione strutturale di cui fanno parte.

Torniamo al vincolo dell'equipe con i pazienti. I problemi centrali che attraggono la nostra attenzione sono collocati nella linea che riflette sull'articolazione di molteplici fattori (individuali, gruppali, istituzionali e comunitari) che intervengono all'interno di ciascun processo terapeutico.

Processo terapeutico e processo di apprendimento

Dopo molti anni di esperienza di supervisione nei servizi pubblici (Servizi psichiatrici, Ser.T, Consultori familiari) ho potuto constatare che i pazienti si presentino ai servizi accompagnati quasi sempre da familiari. Gli operatori riferiscono che in qualche modo i parenti interferiscono nelle scelte terapeutiche e pensano che i familiari siano responsabili in qualche modo del malessere del proprio figlio o fratello per la loro intrusività o eccessiva distanza.   Sappiamo anche che alcuni operatori hanno in qualche modo conoscenze sui modelli familiari e sociali della malattia (Sistemica, Psicoanalisi, Psichiatria Sociale) e che includono nel progetto terapeutico dispositivi gruppali, quali incontri con le famiglie, gruppi psico-educativi, gruppi terapeutici di riabilitazione, visite domiciliari.

Nonostante ciò gli operatori mantengono una visione (schema di riferimento) individualistica della malattia del paziente, non viene riconosciuto che il paziente emerge da una struttura nella quale è implicato, e che i suoi limiti devono essere ricercati al di là dell'ambito individuale.

C'é una evidente contraddizione ma come integrare questa contraddizione?

La clinica attuale si vede costretta ad affrontare nuove problematiche che non può più escludere dal proprio campo. La questione della costituzione del vincolo familiare insieme alla costruzione della nozione di equipe (verticalità, orizzontalità e trasversalità) vengono così imprigionate in una situazione inquadrata individualmente sia sul versante del paziente, sia sul versante degli operatori che sentono un carico strettamente personale o l'esclusione dalla gestione del paziente. E questo nonostante la presenza di dispositivi gruppali (case manager, mini-equipe sui casi, progetti di equipe.

In altre parole dovremmo ripensare l'individuale a partire dal soggetto collettivo, dal numeroso, dall'eterogeneo che è incluso nella molteplicità.

Non é difficile pensare che una clinica gruppale e familiare, che sono presenti nel lavoro nel Servizio Pubblico mobiliti , disturbi e trasformi non solo le nostre identificazioni ma anche i nostri oggetti interni. L'esterno, il nuovo, obbliga a tornare a riconfigurare l'interno, il gruppo interno.

Il processo terapeutico avviene seguendo il percorso di un vincolo non lineare (spirale dialettica) che tende a indagare contraddizioni che sorgono all'interno del processo e del contesto.

Allora perché é così difficile immaginare un servizio, il lavoro ambulatoriale o una visita domiciliare come un lavoro gruppale?

La psichiatria vista dalla prospettiva gruppale non distingue terapia dall'apprendimento, o per essere più precisi, il processo terapeutico dei pazienti viene differenziandosi a partire dall'apprendimento dell'equipe degli operatori.

I trattamenti e gli apprendimenti sono “effetti” dei gruppi che sono in relazione in ogni vincolo gruppale istituzionale. C'é il rifiuto di comprendere che ogni dinamica vissuta dall'equipe è il risultato di intersezioni verticali, orizzontali e trasversali.

La paradossale contraddizione che abbiamo evidenziato nasce dal fatto di fermarsi a vedere la scena del paziente e dei suoi familiari solamente come una fenditura che ci permette di intravedere la multi-causalità della sintomatologia del paziente o la struttura della dinamica familiare, e non la messa in atto di comportamenti differenziati dei vari membri della famiglia per fronteggiare o contrastare il Servizio che appare loro come un nemico. granitico e ottuso, pericolo e inaffidabile.

Non si tratta solo di limitarsi a riconoscere una pluralità di dimensioni o pluricausalità nella configurazione della malattia (afferrare la totalità della questione) ma di inglobare anche l'altro polo: il terapeuta e l'equipe terapeutica.

Da questa prospettiva l'intervento dell'equipe non può essere una mera risposta alla configurazione individuale/familiare dell'utenza, ma l'affermazione di un punto di vista (offerta istituzionale) che in quel modo “da fuori” osserva e interviene sul vincolo pazienti- equipe.

I lavori di Searles e Bauleo sul controtransfert mettono in luce quanto sia difficile identificare il transfert perché ci vorrebbe un tempo relativamente prolungato (lavoro) per renderlo sufficientemente distinto coerente e integrato. Come tradurre in concetti, una serie di esperienze ed emozioni. Non è facile discriminare chi fa che cosa nel vincolo terapeutico. Si apre il difficile capitolo della relazione tra posto che si occupa e funzione terapeutica, tra inquadramento e processo. L'inquadramento non è solo un'istituzione, una relazione che non cambia nel tempo, ma uno spazio mentale dove è possibile cioè pensare e ricercare.

La supervisione è un andare oltre una visione, é un'operazione di de-naturalizzazione, incominciare cioè a pensare insieme all'equipe una decostruzione della visione stessa.

Il supervisore viene da fuori da un altro luogo e da un altro tempo e si inserisce temporaneamente nell'organizzazione del gruppo istituzionale, dando sin dall'inizio una svolta ai vincoli e ai pensieri all'interno dell'equipe sui propri compiti.

Abbiamo così appreso che gli spazi o vincoli istituzionali non curano i pazienti ma sono l'occasione perché l'istituzione diventi terapeutica. Nella supervisione istituzionale assistiamo all'attualizzazione nel qui e ora con il supervisore degli elementi problematici del processo terapeutico.

Restiamo per un tempo stabilito nello spazio di un dispositivo gruppale e istituzionale con il fine di collocarci dove emergono altre opinioni, emozioni e idee, che possono sorgere dalla tensione critica che c'è in ogni supervisione. Il lavoro del gruppo istituzionale dipende da un sapere costruito insieme e volta per volta condiviso.

Bibliografia

Bauleo A., Psicoanalisi e gruppalità, Borla, Roma, 1999

Bauleo A., De Brasi M., Clinica gruppale clinica istituzionale, Il Poligrafo, Padova, 1990

Bleger J., Psicoigiene e psicologia istituzionale, Lauretana, Loreto, 1989

Pichon-Rivière E., Il processo gruppale, Lauretana, Loreto, 1985

Pichon-Rivière E., Teoria del vinculo, Nueva Vision, Buenos Aires, 1985


 

[1] Una síntesis de este trabajo fue presentada en la Asamblea internacional sobre investigación en la Concepción Operativa de Grupo, Rimini, 20-22 de octubre de 2016.

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